Salvatore Giuliano


Dopo un intermezzo leggero, torniamo ai film degni di questo nome con un fulgido esemplare del Neorealismo italiano. Posso dire una cosa sconveniente e vergognosa? A me il Neorealismo non piace. Lo considero una tassa dovuta, un sacrificio necessario sull'altare della storia dell'Arte in senso lato. E' un po' come leggere Verga: mi mette a disagio tutta questa ostentata e truce, brutta verità. Ciò detto, è imprescindibile Verga, come lo è Picasso (che pure non mi piace), come lo è Berlioz (idem come sopra), come lo è il Neorealismo. Eccomi dunque a pagare il mio tributo a Francesco Rosi con questo antesignano del docu-film, Salvatore Giuliano.
Il Turiddu del titolo fu un bandito che nel secondo dopoguerra operò con la fazione separatista siciliana, che voleva l'indipendenza dell'isola dall'Italia e l'annessione agli Stati Uniti d'America. Tanti gruppi di disperati fecero da pedine nei grossi giochi orchestrati dalla mafia e dall'esercito, che cercavano, ognuno a suo modo e all'occorrenza embricandosi, di ottenere un qualche controllo su questa terra difficile, accumulando morti.
Salvatore Giuliano nel film non si vede mai, se non da morto: il suo fantasma aleggia sopra i suoi luogotenenti che organizzano blitz anti-carabinieri e incursioni paramilitari ai danni dei comunisti (pochi) dell'isola, come nell'episodio di Portella della Ginestra, su cui molte ombre ancora rimangono (il passato è l'unica cosa che siamo certi non conosceremo mai, a differenza del futuro che vivremo).
Quello che Rosi sembra volerci dire, in mezzo a queste faide più vere del vero, è che Giuliano non è tanto importante come bandito di per sé, ma come espressione di un sentimento popolare che non voleva un'unificazione forzata: aveva con sé buona parte dei contadini, per cui era quasi un eroe. Purtroppo i matrimoni combinati non sempre conducono ad una famiglia piena d'amore, ciò che spiegherebbe parte degli attriti che vessano tutt'oggi la nostra penisola.


Le scene in cui vediamo Salvatore, ormai cadavere, ricordano una deposizione (il momento dell'analisi del medico legale, che apre il film) e una pietà, con la madre a lutto che, con pianti di prefica, è chiamata a riconoscerlo.
Mi ha sorpreso, stilisticamente, la coesistenza di un buon livello registico con una fotografia terribile e sgranata: Fellini negli stessi anni girava La Dolce Vita e 8 e 1/2, che appaiono smaglianti e molto meno datati a cinquant'anni di distanza.
Dunque, un plauso al valore storico della documentazione precisa e senza fronzoli e all'impegno didattico su avvenimenti che per molti di noi, specialmente per la mia generazione, rappresentano un buco nero di misconoscenza, ma mi tocca rimanere anti-neorealista: non c'è niente da fare, Bello è un'altra storia.

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